Mourning, Isolation and the Pandemic. From Mary Shelley to Covid-19

Lutto, isolamento e pandemia.

Da Mary Shelley al covid-19.

Nel 1826, Mary Shelley, già autrice del celebre Frankenstein, or the modern Prometeus, inaugurò la narrativa post-apocalittica con il romanzo The Last Man[1]. La vicenda è collocata in un tempo futuro (la fine del XXI secolo), nel quale una pestilenza implacabile si propaga nel mondo sino ad estinguere la specie umana. In un peregrinare solitario e ormai privo di speranza, l’«ultimo uomo» Lionel Verney elabora i suoi lutti, attraverso una riflessione lucidissima su isolamento e pandemia che pare di grande interesse al tempo del covid-19.

Anche se la scrittura palpitante dell’autrice costruisce una trama narrativa intrisa di suspence, dove l’angoscia è crescente, il tragico epilogo anticipato nel titolo (l’estinzione della specie, la solitudine estrema del protagonista) pare l’esito di una serie di errori di valutazione e di vizi umani che forse avrebbero potuto essere prevenuti.

In tal senso, sono particolarmente significative le pagine riconducibili al secondo volume del libro, quando l’epidemia, proveniente dall’Oriente, raggiunge per la prima volta l’Europa. Le prime reazioni inducono a sottostimare la portata dell’evento, o a dubitare che questo possa raggiungere i luoghi più familiari ai protagonisti: la pestilenza pare lontana (cfr. p. 122). Tuttavia, a poco a poco, il contagio si sposta nel sud Europa e da lì verso il nord del continente (p. 127). I governanti iniziano a cercare soluzioni per proteggere le grandi città, sebbene si auspichi che il semplice cambio di stagione purifichi l’aria, vettore dell’infezione (p. 122).

In questa fase, i confini nazionali diventano estremamente importanti: più il contagio diviene virale, più la percezione della vulnerabilità dell’individuo aumenta, e l’ordine delle priorità viene rivisto in funzione della salvezza della specie. Le morti diventano numeri da contare, corpi infetti da abbandonare. Viene generata la retorica della guerra: l’individuo, finito, è sacrificabile, per il bene della collettività e della sua in-finitezza. Il commercio viene limitato, poi interrotto; improvvisamente il pericolo irrompe nelle vite dei protagonisti, tutti percepiscono che la morte è vicina (pp. 128-129; 136).

Dopo tre mesi di tempo, la prima grande epidemia sembra essere passata. Vi è grande esultanza e speranza nel futuro. Anche se i beni di prima necessità sono decimati, la popolazione si abitua alla paura e, pur temendo nuove ondate, cerca il contatto sociale. I confini vengono abbattuti; l’isolamento, che prima sembrava una difesa necessaria, ora diventa una rovina. I superstiti escono quindi dai loro rifugi, in cerca di cibo e di rapporti umani (pp. 137-149). La natura sembra aver ripreso il sopravvento, la civiltà è cambiata. In particolare, il pericolo di morte ha livellato le diseguaglianze, anche se verso il basso. Alcuni individui comprendono persino il valore della cura:

 

among some these changes produced a devotion and sacrifice of self at once graceful and heroic. It was a sight for the lovers of the human race to enjoy; to behold, as in ancient times, the patriarchal modes in which the variety of kindred and friendship fulfilled their duteous and kindly offices. Youths, nobles of the land, performed for the sake of mother or sister, the services of menials with amiable cheerfulness (p. 171).

 

Altri individui, invece, vengono affabulati da un presunto stregone, un impostore che costruisce fake news a mano a mano che la curva dei contagi ricomincia a salire, sino a circondarsi di una cerchia di adepti terrorizzati e obnubilati (p. 218).

Come testimoniato dalla sua incredibile biografia, Shelley è l’autrice del rimpianto, della solitudine, della disperazione, e soprattutto della perdita. Tuttavia, la sua narrazione a tratti profetica suggerisce riflessioni che paiono valide anche al di là del proprio contesto, ed in particolare al tempo dell’emergenza sociale, sanitaria ed economica che stiamo oggi vivendo.

In primo luogo, ella colloca al centro della sua costruzione narrativa la vulnerabilità umana: da quella fisica, a quella ontologica, sino a quella “psicologica” e infine morale. L’uomo è una creatura fragile che necessita del contatto e della solidarietà dei propri simili, ma anche di una trama relazionale che dia senso alla propria esistenza individuale.

In secondo luogo, l’autrice non perde occasione per sottolineare la funzione, a suo giudizio prioritaria, dei doveri e delle responsabilità – persino rispetto ai diritti. È possibile intravvedere in queste pagine un dialogo silenzioso di Shelley con la madre, Mary Wollstonecraft, secondo la quale sono in particolare i doveri genitoriali ad assumere una precedenza assoluta. Tuttavia, in The Last Man, questa riflessione di partenza evolve recidendo la corrispondenza biunivoca, sempre invece preservata in Wollstonecraft, tra doveri e diritti: la prevalenza dei primi diviene nettissima. Le leggi, i diritti sono prodotto della socialità e insieme alla società si dissolvono (p. 239). Simul stabunt simul candent. Viceversa, i doveri e le responsabilità sono ciò resta di umano in un mondo post-umano: sarà, infatti, soltanto aggrappandosi ad essi che Verney potrà salvaguardare la propria umanità nonostante l’apocalisse.

In terzo luogo, non si perde mai di vista l’impatto della pandemia sulle persone più deboli, o più esposte. Lo sguardo della narratrice si sofferma a più riprese sui problemi di giustizia sociale che ineriscono alle diseguaglianze materiali, al riparto tra carichi di cura, alle carenze educative.

Riconoscimento delle vulnerabilità, doveri e responsabilità sociali, promozione dell’eguaglianza. Una triade sulla quale si potrebbe costruire una visione di società ampiamente condivisibile: e dalla quale siamo ancora troppo distanti.

[1] L’edizione consultata, alla quale si riferiscono tutti i numeri di pagina indicati nel testo, è M. Shelley, The Last Man (1826), Digireads, Boston, 2011.

 

Serena Vantin, ELaN Teaching Staff

Post-Doc Researcher, University of Modena-Reggio Emilia