University at home and distance learning: work, private sphere and the research of empathy

L’università a casa: il lavoro, il privato e l’eros pedagogico al tempo del Covid-19

L’università, così come tutti gli altri ambiti della nostra vita, in queste settimane è stata travolta dall’emergenza causata dal Covid-19. In pochi giorni la didattica e tutto l’apparato universitario sono stati trasportati nella dimensione dell’online. Docenti, studenti e personale tecnico-amministrativo si sono trovati a fare i conti con l’improvvisa ridefinizione di forme del lavoro, dello studio e delle relazioni. Ed è sulla dimensione relazionale e spaziale dell’accademia al tempo del Covid-19 che vorrei proporre alcune riflessioni, che vanno ad aggiungersi al dibattito in corso sull’università a distanza che sta finalmente prendendo forma.

Mi vorrei qui soffermare in particolar modo sul luogo in cui la teledidattica si sviluppa e sulle relazioni che si producono in esso. Il passaggio all’online prende contemporaneamente forma in un indefinito e distante spazio virtuale e in uno spazio concreto e vicino: la casa. Luogo dell’abitare, e ora sempre più del lavorare, la casa, lungamente analizzata dalla teoria femminista, ha assunto una nuova centralità al tempo della pandemia da Covid-19. Diversi articoli – tra cui quelli di Sandra Burchi, Giorgia Serughetti, Anna Loretoni sono stati pubblicati su questo spazio risignificato, mentre il movimento transfemminista “Non una di meno” ha lanciato la campagna social #iorestoacasama con lo scopo di far uscire virtualmente le donne dall’isolamento delle case e costruire reti di solidarietà online.

Carica di storie e di presenze, la casa è uno spazio tutt’altro che neutro. Ed è in questa assenza di neutralità, anzi nella sua pienezza, che l’università a distanza ha luogo in queste settimane. La teledidattica si ritrova ad essere realizzata sia dal lato dell’insegnamento che dell’apprendimento in ambienti che spesso sono abitati da una pluralità di soggetti e sono utilizzati per funzioni diverse. Per molti/e docenti – categoria su cui soffermerò la mia attenzione, data la mia appartenenza ad essa – la casa è improvvisamente diventata il luogo della vita domestica e del lavoro, oltre che degli hobby, delle relazioni (in presenza con i membri della famiglia, online con gli altri). Un luogo onnicomprensivo in cui il lavoro è stato trapiantato bruscamente con effetti complessi. Le forme di impreciso smart working in ambito accademico che si stanno praticando “forzosamente” in questi giorni hanno mostrato delle opportunità (raggiungimento di persone con gravi disabilità, malattie, impossibilitate a muoversi da casa, riduzione degli spostamenti con miglioramento dell’inquinamento ambientale, ecc.) ma anche e soprattutto i limiti di una tale costruzione del lavoro quando non ci sono misure efficaci di affiancamento a fare da supporto – nidi, scuole, baby-sitting  –, e quando non ci sono all’interno delle abitazioni spazi che possano essere destinati al telelavoro. Nel 1929 la scrittrice Virginia Woolf scriveva: “se ha intenzione di scrivere romanzi, una donna deve possedere denari e una stanza tutta per sé”. Una tale affermazione vale ancora oggi, e può essere facilmente estesa anche all’ambito universitario. Se la condizione di reclusione in casa e l’eventuale mancanza di spazio riguardano oggi uomini e donne, su queste ultime può pesare di più, dato il generale doppio carico di lavoro che ricade su di loro. Ma sarebbe utile fare un’indagine per provare una tale affermazione e capire il peso di eventuali differenze. Certamente è indubbio che lo spostamento di tutta l’attività universitaria all’online e quindi a casa ha significato un sovraccarico di lavoro: da un lato, quello universitario accresciutosi con la teledidattica; dall’altro, quello domestico e di cura verso familiari di età diverse, e soprattutto verso bambini che all’improvviso si sono ritrovati tra le mura di casa 24 ore su 24. La gestione di questi due ambiti per molte (e forse per molti o solo per alcuni) è risultata estremamente faticosa e complessa. Non è infatti stato previsto un rimodellamento dell’impegno e dell’orario di lezioni, che sarebbe stato necessario non solo considerando la congiuntura dei familiari a carico a tempo pieno, e la fatica degli/delle studenti dall’altro lato dello schermo, ma anche valutando la crescita dell’attività lavorativa nel passaggio all’online. La preparazione della didattica a distanza, e tutte le attività ad essa connessa, richiedono un tempo molto maggiore per essere eseguite. In queste settimane il tempo del lavoro così come quello della cura si sono espansi, consumando il tempo per tutto il resto, in una fase in cui proprio il tempo, il tempo della stasi, del rallentamento assumono un nuovo valore. Il bisogno di fermarsi o quanto meno di rallentare – evidenziato dalla profonda crisi che stiamo vivendo, ambientale, sanitaria, economica e politica – è andato a confliggere con quei discorsi racchiusi negli hashtag “l’università non si ferma”, “la cultura non si ferma”. Molte/molti si sono trovati ad andare avanti tra pulsioni contrastanti: non fermare il semestre, garantire il diritto allo studio; e fermare, rallentare le attività di fronte a un evento extra-ordinario al fine di non continuare a riproporre una “normalità che era il problema”. Tuttavia, se questa fase emergenziale che a inizio marzo sembrava dovesse durare qualche settimana si protrarrà, come sembra, addirittura fino al primo semestre del nuovo anno accademico, diventerà necessario ripensare le forme e i tempi del lavoro, della didattica in sé, e in relazione al lavoro di cura familiare, ai rapporti tra i generi e alla grande presenza di precari/e nell’ambito della docenza. Su di loro, che spesso insegnano una pluralità di corsi, pur di mettere insieme un minimo stipendio di base, l’aumento delle ore di lavoro per soddisfare le esigenze della didattica online ha un peso significativo.

Dal punto di vista dell’ambito universitario indagare lo spazio della casa non è rilevante solo per quanto riguarda la sfera del lavoro che in essa prende forma, ma anche in funzione delle relazioni che si sviluppano in essa tra docenti e studenti. Due tendenze si sono sviluppate in queste settimane. Da un lato, quella al “nascondimento”, dettata dai limiti del mezzo (che non può reggere troppe connessioni aperte) ma anche dalla preferenza degli/delle studenti a celarsi dietro schermi silenziati e oscurati; e dall’altro, quella del palesamento di una dimensione privata finora tenuta gelosamente nascosta. Lo spazio della casa è lo spazio del privato per antonomasia, e in queste settimane il privato ha fatto irruzione nella dimensione accademica in forme inaspettate. Malgrado la sovente chiusura delle telecamere da parte degli/delle studenti durante le lezioni e malgrado il tentativo dei/delle docenti di rendere neutro, asettico lo spazio online delle lezioni attraverso affannosi tentativi di trasformare in luoghi “adatti” alla didattica cucine, salotti, camere da letto – abitati spesso da una pluralità di componenti familiari espunti da essi all’occorrenza della lezione – il privato è entrato nella vita universitaria. Le case di docenti come quelle di studenti, con tutto quello che contengono, si sono ritrovate in comunicazione: pezzi di famiglia che sarebbero dovuti rimanere fuori dall’ambito accademico hanno fatto inavvertitamente capolino. Poster, foto delle vacanze, peluche sono stati involontariamente mostrati, rivelando gusti e intimità fino a quel momento tenuti segreti. Tute, e talvolta addirittura pigiami e vestaglie, non sono apparsi così inopportuni per seguire o intervenire in una lezione online. Volti sempre truccati hanno lasciato spazio a occhiaie, rughe, capelli spettinati. Fumare a lezione non è più stato considerato proibito. Frasi che dovevano appartenere a una sfera confidenziale, per errore nell’uso di microfoni, sono state condivise creando ilarità o irritazione. Certo, c’è chi è riuscito a mantenere le distanze sociali, le formalità del caso, ma è indubbio che la linea di demarcazione tra pubblico e privato diverse volte in queste settimane è stata attraversata con una facilità inimmaginabile fino a poco più di un mese fa. Similmente la linea di separazione tra formale e informale è stata messa in crisi a più riprese. Le parole pronunciate dal rettore dell’università di Perugia sono emblematiche di questo cambio di paradigma. Durante una video-lezione, trattenendo con difficoltà le lacrime, si è rivolto agli/alle studenti dall’altra parte dello schermo usando parole come “vi voglio bene”, “vi prometto che organizzerò una festa, vi voglio tutti ubriachi, tutti a pomiciare sui pratini. Sarò ubriaco anche io, ve lo prometto”. Frasi spiazzanti nella bocca di un rettore, che in maniera del tutto imprevista hanno rotto la separazione tra formale e informale che norma le regole scritte e non scritte dell’accademia.

In queste settimane nelle aule virtuali sta dunque avvenendo un processo ambivalente: l’allontanamento tra i membri della comunità accademica e allo stesso tempo un sovvertimento di quel rigido ordine valoriale che ha abituato le persone ad espungere il privato e le emozioni dagli spazi universitari. Inedite riconfigurazioni delle relazioni e delle emozioni stanno prendono forma, ma non è ben chiara la direzione verso cui evolveranno: verso un progressivo maggiore distanziamento sociale o verso una maggiore messa in comunicazione dei propri vissuti? Difficile dare una risposta ora, anche se personalmente propenderei per la prima evoluzione. Sebbene non manchino commenti positivi all’esperienza della didattica a distanza, queste prime settimane di teledidattica mostrano la crescente stanchezza (e spesso frustrazione) di molti/e docenti e studenti per l’utilizzo di un mezzo che dematerializza i corpi, rarefà le relazioni, trasportandole in un piano che non è di contatto fisico, e in molti casi neanche visivo. Sebbene giorno dopo giorno si controlli sempre meglio lo strumento tecnologico che permette di fare lezione, c’è qualcosa che non funziona nelle aule virtuali, anche quando tutto funziona alla perfezione. L’erotismo alla base della relazione didattica di cui scrive Giuseppe Burgio si dissolve davanti a uno schermo, lasciando un senso di profonda frustrazione e alienazione. La comunicazione del sapere nel passaggio all’online rischia di ridursi a un oggetto che si dà o si prende, non è più una relazione (di insegnamento-apprendimento) che vive di dimensioni verticali, orizzontali e circolari. La didattica a distanza può pertanto andar bene in un’ottica emergenziale, può sì funzionare in taluni casi specifici e limitati, può offrire degli strumenti per potenziare e migliorare la didattica in presenza, ma non può diventare il modello da perseguire per l’università di domani, come da più parti si incomincia a sentir dire. Per funzionare bene la didattica ha bisogno di spazi dedicati, e di menti e di corpi che si mettano in gioco all’interno di una dimensione comunitaria, che include le relazioni tra docenti, tra docenti e studenti, tra studenti. Altrimenti è l’affermazione del primato della verticalità nella dimensione dell’insegnamento-apprendimento a discapito di quello della circolarità. L’università non si può ridurre a un mero servizio, messo sul mercato, ma deve mantenere il suo carattere di relazione, scambio, incontro, con i suoi tempi pieni e i suoi tempi vuoti. E deve avere un luogo fisico dove prendere forma: non l’etere e tantomeno le case, ma le aule universitarie, le aule studio, le biblioteche, gli studi dei/delle docenti, i corridoi, i giardini, spazi apparentemente marginali ma centrali per la tessitura di relazioni e la creazione di una comunità accademica viva e libera.

Renata Pepicelli, Associate Professor of Islamic Studies at the University of Pisa