Amplificazione sotterranea della violenza di genere. Alcune conseguenze del Covid-19 sul sistema patriarcale
Premessa e stato di cose
Non ci devono sfuggire per un verso gli aspetti più subdoli e pervasivi della delicata situazione che ci coinvolge tutti/e, in questo momento così drammatico, i cui effetti macroscopici e di primo livello sono per altro verso sotto gli occhi di tutti/e, per quanto passibili di varie accentuazioni descrittive, a seconda delle posizioni ideali e dei criteri di rilevanza. A livello di fenomeni pubblici ed evidenti, ci si può infatti concentrare sulle morti, sul numero dei/le ricoverati, sull’enorme impatto sul sistema sanitario, sulla ricerca di vaccini e di medicinali appropriati, sulle proiezioni relative alle fasi della pandemia; oppure sulle massicce restrizioni del comportamento individuale e sociale, come pure sulla recessione economica, sulla diatriba rispetto al ruolo dell’Unione e del Mes o di altri dispositivi di salvataggio, o sulla caduta di un’ulteriore fetta della popolazione sotto la soglia di povertà, per non dimenticare gli strappi non indolori al tessuto costituzionale accanto agli atti di ‘comune eroismo’ di migliaia di operatori sanitari, di lavoratori e lavoratrici dei settori alimentare, energetico, elettromeccanico, dei trasporti, dei servizi e dei molteplici indotti relativi. Nel dire questo, non si tenta di sottovalutare o di rimuovere, o di evitare. Al contrario. Non intendo togliere niente al carattere di ineludibilità di questi problemi, né all’urgenza delle soluzioni da essi imposti; ancor più sarebbe ridicolo, o addirittura offensivo nei confronti delle vittime, degli operatori, di noi stesse/i il non lottare con tutti i mezzi per superare o almeno mitigare una condizione di pandemia finora inedita, per quanto riguarda la pervasività e la capacità di diffusione esponenziale.
Ciò premesso, occorre far ricorso a risorse ulteriori, sia teoretiche, sia pratiche, sia emotive per guardare più a fondo, nelle crepe del sistema sociale e culturale preesistente, quel sistema della socialità primaria che codifica i ruoli di genere secondo un sistema certamente asimmetrico e iniquo, lo stesso sistema in cui ci siamo trovati/e a reggere l’impatto di questa emergenza gravissima e dai caratteri omnipervasivi. Devo fare una premessa di carattere squisitamente teorico per arrivare a esemplificazioni legate agli effetti di secondo livello del Covid-19 sul sistema patriarcale in cui le donne italiane, e non soltanto, si trovano inserite gioco forza, e a partire dal quale si trovano a combattere l’emergenza.
- Ruoli della socialità primaria e misconoscimenti
La fase della socialità primaria, sopra citata, è l’espressione con cui Alain Caillé traduce ciò che per Hegel è la sfera dell’amore, e definisce la relazione parentale/filiale e familiare inclusiva dell’ancor più originario interscambio madre-infante; questo ambito complessivo è strutturalmente propedeutica al passaggio alla sfera sociale, politica ed economica del riconoscimento (Caillé, 2007). Ciò detto, siamo ben lungi dall’assolutizzare in senso metafisico questa fase, come fosse la scaturigine pre-sociale e a-storica della relazione originaria del riconoscimento, il cui oblìo produrrebbe inevitabilmente le patologie sociali e politiche delle nostre società. Al contrario, ritengo che sia esattamente l’occultamento simbolico e cognitivo, perpetrato sistematicamente e implicitamente dai costrutti collettivi e istituzionali (a partire dalla maternità/paternità e dalla famiglia, costrutti sociali per eccellenza), a naturalizzare indebitamente i ruoli di genere e i tessuti intrapsichici/intersoggettivi su cui questi si fondano, trasformando gli uni e gli altri, da relazioni potestative costruite e dinamicamente ‘asimmetriche’ quali sono, in legami organici e naturali, e quindi fissi, immutabili, indiscutibili. Lo stesso impianto della psicoanalisi relazionale è un esempio di demistificazione in actu del carattere naturalistico dei ruoli sessuali e di genere.
Asimmetria: tale lemma, una chiave di lettura cruciale accanto al lemma ‘riconoscimento’, è indicativo di uno scarto, di una discrasia, intesa quale mancanza di proporzione o di corrispondenza ‘relativa’ a due o più componenti di un insieme, di una non-parità circostanziale, rebus sic stantibus; tale condizione richiede di essere tenuta sotto osservazione e ritmicamente seguita nei rivolgimenti e nelle mutazioni che per definizione compie e/o subisce chi in essa sia calato/a. La categoria può assumere significati assiologici molto diversi: può indicare un’apertura verso qualunque forma di trascendenza (religiosa, morale, mistica, teurgica, erotica) come pure una condizione fisiologica e funzionale di dipendenza, come lo sono i rapporti di cura, finora codificati in forme diversificate a seconda dei tempi e degli spazi sociali che hanno contraddistinto le varie aggregazioni umane; tali rapporti sono (almeno finora) destinati a ribaltarsi con il tempo, e rimanendo pur sempre entro le costruzioni sociali e artificiali dei ruoli di genere relativi alle epoche e ai luoghi di volta in volta considerati.
Non a caso, anche rispetto alla fissazione del confine fra pubblico e privato nei termini delle policies/pratiche di genere è la politica ad esser chiamata in causa, proprio in base alla presa d’atto che la costruzione dei ruoli, se pur radicata nelle dinamiche intrapsichiche, è del pari costruita intersoggettivamente, e non in astratto, ma a partire da concreti e specifici individui in carne ed ossa che interpretano entro un raggio di libertà limitato le ‘parti’ assegnate: madre, padre, figlio, figlia, sorella, fratello, alternativamente attivi e passivi nella vita esteriore sociale e istituzionale, in un gioco speculare asimmetrico e quasi mai sincronico né perfettamente reciproco. Di questi passaggi dinamici ma aspri e opachi si dovrebbe tener conto politicamente, per correggere con misure pubbliche di sgravio eventuali eccessi o sovraccarichi ingiustificati nella misura e nella durata, a carico di alcuni/e, e a favore di altri/e partecipanti alle relazioni intergenerazionali e alla edificazione del progetto collettivo di una popolazione determinata. Ad essere cruciale è comunque il ruolo allocativo/decisionale della politica, ruolo da intendersi non soltanto in un senso economico; infatti, oltre ai vincoli e alle condizioni materiali scarse, i codici immateriali e pervasivi – i valori, i princìpi, le pratiche diffuse, i ‘non detti’ – contano, e intervengono massicciamente nel plasmare la vita e i pensieri degli individui rispetto a ciò che è meritevole di difesa e di sviluppo, e a ciò che non lo è; tali quadri di senso intra – e intersoggettivi sono incorporati in forme non verbali nelle istituzioni e nelle leggi o nelle consuetudini sociali, gli stessi in base ai quali i detentori del potere simbolico, fra gli altri/e, lasciano emergere solo alcune fra le istanze provenienti dalla famiglia e dalla società, traducendole nel linguaggio accreditato, mentre oscurano o trascurano altre, condannandole al misconoscimento, appunto (Henry, 2008).
- Preesistenza del sistema simbolico patriarcale
Una di queste istanze misconosciute – perché non eclatanti né rassicurante a causa del suo carattere sistemico – è la vischiosità, la persistenza, la riproduzione incontrastata e irriflessa del sistema patriarcale in Italia; la presenza di questo assetto è ubiquitaria, e viene solitamente alla luce soltanto quando la violenza contro le donne diventa fatto di cronaca, con omicidi e violenze perpetrate contro singole persone, e sovente tardivamente denunciate e punite, o non punite affatto. Vorrei ricordare qui quanto stia al di sotto dei reati, e prolifera in perfetta sintonia, anche se con incidenza quantitativamente superiore rispetto al Nord Europa, con il sistema simbolico, di pensiero e di azione patriarcale attivo a livello transculturale e transnazionale. Tant’è che la violenza di genere è democratica, interclassista, internazionale; abbiamo avuto esempi di imprenditori, avvocati, professionisti nostrani, accanto ad operai e lavoratori manuali sia italiani sia di paesi terzi, di nullatenenti, di immigrati legali e illegali. Ciò è sostenibile, nonostante vi siano variazioni nel grado di prevedibilità dell’innesco della violenza, al cambiare dei contesti che accentuano gli squilibri e le diseguaglianze; come avviene nell’attuale momento di emergenza pandemica. In questa situazione, le differenze di accesso ai beni sociali, in primis, la ricchezza (in tutti i sensi del termine) o almeno l’autosufficienza economica diventano fattori cruciali nel favorire o mitigare le occasioni in cui la violenza di genere si può scatenare. Questo tipo di violenza, quello che si esprime alla luce del sole, amplifica e rende talvolta permanenti le ferite psicologiche durature, sovente non diagnosticate, ma già inflitte prima, e quindi preesistenti sovente alla deflagrazione finale, che è il climax di precedenti comportamenti sessisti legittimati implicitamente o tollerati dalla tradizione. Non si dimentichi la longue durée del Codice penale Rocco nel nostro Paese, emendato ma tuttora vigente, e che l’abolizione della fattispecie del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, art. 587, è avvenuta soltanto nel 1981. Così recitava «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni». Il delitto d’onore è la punta di un iceberg, è la sintesi e l’emblema di tutto un’universo di stereotipi sessisti e patriarcali persistenti e non dichiarati ma palesi nei comportamenti e nel fondo di assiomi che li giustificano – (la donna è fonte di peccato, e di infezione, è creatura foriera vergogna, in stato di minorità legale e morale, da battere all’occorrenza per domare la sua natura lasciva e smodata, di proprietà dell’uomo in quanto pater familias, che ha l’onere di ristabilire l’ordine etico infranto). Le misure di ‘riparazione’ della violazione dell’onore e del decoro, ancor oggi tollerate implicitamente dal senso comune di molti/e, significano in ogni caso inflizione deliberata di crudeltà, Le ferita profonde e indelebili sono quelle che restano e non si vedono, impresse sull’identità materiale e simbolica delle donne dai precedenti o continuativi maltrattamenti domestici, dagli stupri, dallo stalking, nei sui vari gradi; sia che siano stati denunciati o meno, questi comportamenti delittuosi sono non di meno inflizioni di crudeltà psico-fisica, tutti quanti devastanti e annichilenti chi ne è oggetto, e in molti casi sono prevedibili, diagnosticabili immediatamente, o latenti. Tutto questo per dire che l’emergenza del Covid-19 amplifica e aggrava questa già difficile situazione di latenza, a causa dell’accumulo e la concentrazione del lavoro di cura e domestico di noi donne in spazi condivisi con tutti i familiari, e/o della convivenza forzata con i compagni potenzialmente o realmente ‘maltrattanti’; si tratta di situazioni di violenza endemica, potenzialmente capace di deflagrazione. Anche perché è più difficile eludere la sorveglianza o il controllo indiretto e chieder aiuto ai centri antiviolenza o alla polizia. Da ricordare il campanello d’allarme, intercettato soltanto a tratti e squillato per poco, o almeno non tanto quanto altri moniti, circa la possibilità che sia prevedibile una recrudescenza dei reati di genere nel nostro Paese. Al momento l’incremento del numero di femminicidi è già salito all’onore della cronaca, e in uno dei casi, di tre giorni or sono, compiuto nel Messinese, il riferimento al Covid-19 parrebbe essere indubbio. Non ci possiamo sentir parzialmente rassicurate (si fa per dire!) da questa rinnovata attenzione mediatica sulla connessione fra violenza di genere e virus, giacché mai come in una situazione di incertezza e precarietà generalizzata come quella che viviamo le dinamiche perniciose già esistenti tendono a incancrenirsi, mentre è favorito l’insorgere di nuove, nelle situazioni in cui relazioni già precarie possono peggiorare. Inoltre, i maltrattamenti fisici e psicologici non vengono quasi mai diagnosticati in tempo, o addirittura vengono sottovalutati già in condizioni di normalità. Quando poi vi è qualcosa di più letale, ed emergenziale, è più facile (e comodo) sgombrare il campo da qualsiasi pretesa critica che sia rivolta a mali radicati e ‘normalizzati’ come è la violenza ‘ordinaria’, simbolica e materiale, contro le donne, originata dal sistema patriarcale vigente.
Inoltre, la situazione odierna che amplifica il bisogno, ma non anche il riconoscimento pubblico del lavoro di cura non professionale, che da millenni è ‘privilegio’ del femminile, non fa che acuire, per un verso, il complesso dell’inadeguatezza, e le conseguenze sanzionatorie. Le più diffuse difficoltà e i veri e propri rischi per le donne nascono dalla convivenza quotidiana forzata con coniugi, anziani e figli/e, non più mediata dalla scansione della giornata lavorativa, o scolastica, che separa regolarmente per otto ore al giorno le componenti della famiglia. Proprio qui, l’occhio vigile del patriarcato (in senso metaforico) è all’erta, e denuncia più facilmente le inadempienze di chi non sa essere una brava donna di casa, o perde più frequentemente la calma per il sovraccarico di richieste, talvolta simultanee, talvolta incompatibili, dei familiari, soprattutto se non si dispone di ampi spazi né di dispositivi di lavoro e di svago (apparecchi, pc, telefoni, consolle) adeguatamente numerosi. Le forme di legittimazione da parte delle vittime della violenza subìta si fonda sovente sulla convinzione distorcente, ed eteroindotta, di essere state punite ‘giustamente’ per aver deviato dal modello di genere che si è interiorizzato per decenni in quanto decoroso e ‘sano’. L’adagio del “me lo sono meritato” è l’espressione tipica di questa auto-colpevolizzazione.
Per un altro verso, la doppia presenza, altro elemento portante della morfologia dell’interiorizzazione degli stereotipi da parte di chi li subisce, si riconfigura in forme diverse dal consueto. Non si tratta più della duplice collocazione mentale e emotiva di una donna lavoratrice, che profonde energie per organizzare la soluzione di incombenze familiari e si sente inconsciamente in colpa e inadeguata al ruolo di madre, moglie, figlia per la propria assenza mentre è impegnata nella professione o nel mestiere fuori casa. Ma di altro. Ci troviamo di fronte a casi in cui, in un mondo aperto, globale, poliedrico e interconnesso come è tuttora il nostro, le famiglie di origine e quelle di adozione sono sovente lontane fra loro, e i/le figli, (e non soltanto i coniugi) sono a studiare e/o a lavorare altrove. Il peso del non essere simultaneamente in due luoghi, al sicuro a casa, e ‘là dove si dovrebbe essere’, per prendersi cura di chi si ama, può rendere particolarmente gravoso questo tempo di veglia, questa notte ancora da attraversare. E su cui, correttamente, dobbiamo tornare a interrogarci senza remore.
Barbara Henry, Full Professor in Political Philosophy, Scuola Superiore Sant’Anna of Pisa