“Una parità ambigua. Costituzione e diritti delle donne”, M. D’Amico, Milano, Cortina Raffello, 2020, è un libro di cui c’era bisogno per una serie di ragioni.
Ne ho individuate tre principali, già ad una prima lettura.
Ci aiuta a ritrovare le radici storiche della discriminazione di genere e insieme ad osservarne le manifestazioni più attuali; rende evidente il ruolo del diritto negli studi di genere, perché se è vera quella relazione biunivoca che ci ha insegnato Barbara Pezzini, per la quale il diritto costruisce il genere, ma il genere costruisce il diritto, non sfugge la centralità dello strumento giuridico sia come riflesso delle asimmetrie di potere che riverberano la subordinazione femminile, sia come potente dispositivo di stabilizzazione delle discriminazioni di genere; mostra il ruolo essenziale di un diritto che non guarda solo a quote e leggi elettorali (un solo capitolo del libro è dedicato a donne e politica) ma esprime tutta la sua portata rivoluzionaria sul terreno delle discriminazioni, della violenza di genere, del lavoro, dell’autodeterminazione …
E così l’Autrice conduce le lettrici e i lettori attraverso un percorso che tocca tutti gli ambiti in cui la discriminazione di genere agisce, senza trascurare la prospettiva, a mio avviso irrinunciabile, dell’intersezionalità, che da Kimberly Crenshaw in poi ci mostra lo statuto speciale da attribuire a discriminazioni fondate su più fattori simultaneamente. Uno statuto speciale che si fonda sulla particolare potenza della discriminazione quando aggredisce una donna che oltre alla minorità sociale storica vive l’appartenenza ad una minoranza numerica (in quanto disabile, straniera, omosessuale).
Come ricorda D’Amico il termine genere nelle voci enciclopediche è recente, ma le origini della discriminazione di genere sono antichissime, risalgono all’antica Grecia e sono dovute alla nascita dell’idea della differenza sessuale immediatamente fondata, anche nella mitologia, come differenza naturale. Questa differenza naturale ha accompagnato il cammino della diseguaglianza per molti secoli. E’ del 1883 la pronuncia della Corte di Appello di Torino che per dichiarare illegittima l’iscrizione di Lidia Poët all’albo degli avvocati ritiene “evidente esser stato sempre nel concetto del legislatore che l’avvocheria fosse un ufficio esercibile soltanto da maschi e nel quale non dovevano punto immischiarsi le femmine”, e ciò per numerose e valide ragioni, tutte fondate sulla natura delle donne, sui “limiti che al sesso più gentile si conviene di osservare”, e finanche sugli “abbigliamenti stranie bizzarri” e le relative acconciature che sarebbero potute comparire da sotto la toga o il tocco. E siamo già nel 1906 quando di fronte all’iscrizione di numerose donne alle liste elettorali, sollecitate dall’appello lanciato da Maria Montessori in cui emergeva come nessuna legge in realtà stabilisse il requisito del sesso per l’elettorato attivo, all’accoglimento di tali richieste da parte di alcune commissioni elettorali, e ad una sola (ma importantissima) sentenza della Corte di Appello di Ancona (redatta non a caso da Ludovico Mortara) che riconosceva il diritto delle donne ad essere iscritte nelle liste elettorali sulla base di puntuali e articolate argomentazioni giuridiche, la Corte di cassazione annulla la sentenza senza neppure prendere in considerazione quelle argomentazioni, per il semplice fatto che la mancata attribuzione alle donne del diritto di voto era talmente “naturale” da non richiedere neppure un’espressa previsione di legge in tal senso.
In qualche modo, dunque, la differenza nasce sulla discriminazione e contribuisce a costituirne il fondamento. Anche per superare questa discriminazione nasce il concetto di genere, con il second-wave feminism di area angloamericana. Non è un caso che inizi a svilupparsi negli anni Settanta, a partire dalla necessità di risolvere il dilemma e la tensione tra eguaglianza e differenza che già aveva segnato i pensieri e le ricostruzioni dei movimenti delle donne nel passato. Le conquiste ottenute dal femminismo della “prima ondata”, in primis il diritto di voto (e dunque il rivoluzionario ingresso nella cittadinanza politica delle donne, a partire dal quale nulla potrà più essere come prima, perché sfera privata e sfera pubblica perderanno l’univoca caratterizzazione di genere che avevano conosciuto fino a quel momento, e inizierà a sentirsi quella voce che storicamente è stata soffocata nel silenzio dell’oikos, ancora caratteristico della condizione femminile secondo Carol Gilligan, che D’Amico riprende), ma anche l’accesso alle professioni, non riescono ad incidere profondamente sulla dicotomia maschile/femminile, né a porre la basi per la realizzazione dell’eguaglianza sostanziale.
La donna continua ad essere costruita intorno a ruoli specifici, quelli di moglie e di madre in particolare, ai quali la differenza sessuale sembra condurla naturalmente, per ragioni biologiche prima di altre. Per questo mentre la sessualità diviene la fonte primaria della subordinazione femminile, e della sua perdurante inferiorizzazione, il concetto di gender, tradotto da ambiti come quelli della psicologia e della medicina, inizia ad essere utilizzato quale categoria analitica, in grado di mostrare le relazioni che intercorrono tra uomini e donne all’interno della società. In questo senso il genere rappresenta uno dei costrutti più rilevanti del diritto, traducendo la differenza sessuale in un insieme di ruoli e di pratiche socialmente rilevanti, in una particolare organizzazione sociale, in schemi fissi di relazione tra i soggetti, ma è anche uno strumento critico utile a rendere visibile come le discriminazioni tra uomini e donne non abbiano nulla di naturale, e quindi a promuovere un’eguaglianza de facto.
Parlare di genere non vuol dire però dimenticare la tensione tra eguaglianza e differenza che ha segnato il pensiero femminista fin dalle sue origini, e che permea anche le pagine di “Una parità ambigua”: mi pare emerga fin dal titolo la limitatezza del concetto-obiettivo della parità quando questo pretenda di cancellare “la fantasia e le contraddizioni” delle donne, o, per dirla in altro modo, le costringa a restare parte dell’ordine simbolico maschile utilizzandone gli strumenti, adottandone il linguaggio e assimilandone le aspirazioni.
Il genere aiuta ad inquadrare l’eguaglianza come diritto all’affermazione della propria identità, nel rispetto del valore assegnato a tutte le differenze che, come scriveva anni fa una delle più grandi studiose italiane dei diritti delle donne, Letizia Gianformaggio, “fanno di ciascuna persona un individuo diverso da tutti gli altri e di ciascun individuo una persona come tutte le altre”. In questa dimensione non tutte le differenze sembrano essere uguali: le differenze che diventano diseguaglianze, portatrici di oppressione, devono essere neutralizzate, soprattutto dal diritto, attraverso la sua forza normativa; ma va fatta salva l’esigenza di riconoscerne altre, e tra queste proprio quella sessuale, il cui mancato riconoscimento potrebbe determinarne la stigmatizzazione. Se è vero infatti che la differenza sessuale, intesa come differenza naturale, e la principale conseguenza biologica di questa differenza che è la capacità riproduttiva, ha fondato fin dal mondo antico l’inferiorità sociale della donna (tanto che fin da allora, come segnala D’Amico, la sottrazione al ruolo riproduttivo attraverso l’interruzione della gravidanza è stata intesa come atto di autonomia, di libertà e di emancipazione per la donna), è però anche vero che un’interpretazione della differenza, e della differenza sessuale in particolare, come differenza tra e non come differenza da, può portare a valorizzare tutte le soggettività, senza disperderne peculiarità che possono contribuire ad una crescita civile e politica della comunità nel suo complesso.
L’intersezione tra la categoria del sesso e quella del genere, e la lettura dell’eguaglianza tra donne e uomini alla luce di questa combinazione, ci conduce verso un’eguaglianza (sessuale e di genere) intesa insieme come garanzia di pari opportunità per il pieno sviluppo di sé, nella sfera privata e pubblica, e come riconoscimento dell’identità, in una prospettiva non separatista ma pluralista.
Le sfide a questa eguaglianza, e insieme i suoi spazi di azione, sono tutti presenti nel libro: la violenza di genere; i diritti riproduttivi; il multiculturalismo; la rappresentanza politica; il lavoro; l’intelligenza artificiale.
La violenza domestica, e la violenza contro le donne più in generale, rappresenta una ferita drammatica e attuale alla dignità della persona, che si pone al centro del nostro sistema costituzionale e della costruzione europea dei diritti fondamentali, e la più evidente manifestazione di come la subordinazione femminile non appartenga al passato. L’impatto di genere della pandemia, toccato nelle pagine finali del libro, ha riguardato, oltre alla salute e al lavoro delle donne, specificamente la condizione delle vittime di abusi e violenze familiari, per le quali lo spazio “sicuro” della casa, in situazioni di ridotta mobilità quando non di confinamento, si è rivelata una pericolosa gabbia.
E’ proprio degli ultimi mesi la decisione assunta dal governo polacco di avviare il processo di uscita dalla Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, sulla prevenzione e la lotta contro la violenza domestica e sulle donne, decisione che si colloca espressamente nella scia di un’opposizione politica all’utilizzo della categoria di “genere” nella sua dimensione socio-culturale, letta in contrapposizione al dato meramente biologico. E questa decisione non è un fulmine a ciel sereno, ma è del tutto coerente con il dibattito pubblico che segna molti Paesi in cui populismi apertamente antieuropeisti stanno agendo su vari fronti, mettendo in discussione i diritti delle donne in ambito sessuale e riproduttivo, la loro autonomia, e, ancora una volta, silenziando la loro voce. Basti pensare alla recente sentenza della Corte costituzionale polacca che ha ulteriormente irrigidito la legislazione nazionale sull’interruzione della gravidanza ritenendo costituzionalmente illegittima la disposizione che consentiva l’aborto in caso di malformazione del feto, immediatamente criticata dal commissario dei diritti umani del Consiglio d’Europa. Mentre alcuni Paesi europei come la Germania, su cui si sofferma il volume, hanno cercato di costruire un modello relazionale in cui il diritto alla vita del nascituro/della nascitura è considerato come un diritto che esiste soltanto insieme alla donna, e non in contrapposizione ad essa, bilanciando interessi e beni meritevoli della massima tutela, e ponendo sempre al centro la persona e la sua dignità, l’Europa (anzi, il mondo intero) deve oggi confrontarsi con rinnovati tentativi di controllo autoritario dei corpi delle donne.
Anche il multiculturalismo, d’altra parte, pone sfide complesse all’obiettivo dell’eguaglianza di genere. Mutilazioni genitali femminili, matrimoni precoci e combinati: il patriarcato che spesso domina ancora incontrastato in molti dei gruppi minoritari presenti all’interno delle nostre società multietniche si fa portatore di comportamenti e fenomeni profondamente lesivi della dignità e della libertà della persona, ma non è un caso che le vittime siano quasi sempre le femmine, donne e bambine. D’Amico riparte dall’interrogativo di Moller Okin, che si chiedeva se davvero le società occidentali avrebbero potuto rinunciare così facilmente a tutelare i diritti delle donne per riconoscere i diritti culturali delle comunità e dei gruppi, e mostra come l’interrogativo filosofico si è tradotto negli ultimi anni in soluzioni contrastanti, nei diversi ordinamenti, spesso assunte attraverso lo strumento del diritto penale: da valorizzazioni delle specificità culturali che hanno portato ad attenuazioni delle sanzioni quando non addirittura a limitazioni della responsabilità degli autori di comportamenti violenti e oppressivi, fino, al contrario, ad una considerazione particolarmente severa di questi comportamenti, volta a stigmatizzarli in tutta la loro portata discriminatoria.
Il tema della rappresentanza politica, poi, è ancora di grande attualità nonostante il gender gap nella presenza all’interno delle assemblee elettive e degli organismi governativi sia stato oggetto di numerose “azioni positive”. Basti pensare che dati recenti dell’Unione parlamentare internazionale mostrano come in 20 anni la presenza delle donne nelle assemblee elettive sia soltanto raddoppiata, arrivando ad una media che di poco supera il 20%. Non così il dato italiano che ci riporta l’Autrice: il 35% dei parlamentari sono donne, il 42% dei componenti italiani del Parlamento europeo, e si è verificato un tendenziale aumento della rappresentanza femminile nelle assemblee elettive locali e in alcune Regioni. D’altra parte la questione delle quote elettorali, degli strumenti in grado di favorire o determinare una maggiore presenza delle donne nello spazio politico, rappresentativo ed esecutivo, è spesso affrontata con un approccio meramente emancipazionista e quantitativo, vale a dire nella prospettiva dei diritti delle donne alla partecipazione politica, ma meno della garanzia di una democrazia paritaria nel senso di una democrazia che sia più capace di rispecchiare l’equilibrio effettivo della relazione tra i generi e dunque di promuovere una trasformazione qualitativa, non solo quantitativa, dei metodi e dei contenuti della politica. Anche in Italia di recente non sono mancati interventi assunti nella logica del riequilibrio, anche piuttosto forti: si pensi all’esercizio, per la prima volta, da parte del Governo, del potere sostitutivo previsto dall’art. 120 della Costituzione per imporre alla Puglia l’inserimento della doppia preferenza di genere per le elezioni regionali. Ma il contesto istituzionale complessivo mostra come spesso se non sempre la presenza delle donne costituisca soltanto l’assolvimento di un compito, l’adempimento di un obbligo numerico senza corrispondere all’attribuzione di funzioni decisionali di effettiva rilevanza ovvero alla consapevolezza che per creare davvero pari opportunità di accesso a tutti livelli decisionali occorre operare per rimuovere stereotipi e discriminazioni che ancora agiscono fin dall’infanzia.
Stereotipi e discriminazioni che in luoghi lontani, ma non troppo, da noi, arrivano a condannare le bambine a matrimoni precoci, alla totale assenza di istruzione, addirittura all’assenza di registrazione alla nascita, nonostante questa sia un diritto sancito dall’articolo 7 della Convenzione sui Diritti del Fanciullo emanata dalle Nazioni Unite nel 1989: dati Unicef di quest’anno ci raccontano di 12 milioni di bambine e ragazzine che in un anno vengono date spose alla prima mestruazione, in matrimoni combinati fin dalla loro nascita.
Stereotipi e discriminazioni in luoghi molto più vicini incidono ancora significativamente sul lavoro delle donne, trattato dal libro sia sotto il profilo del diritto antidiscriminatorio, sia dal punto di vista dell’equilibrio di genere nelle carriere. Si legge l’art. 37 della Costituzione italiana, che afferma che le condizioni di lavoro devono consentire alla donna “l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”, come una disposizione anacronistica, benché nella sua prima parte sancisse, già nel 1948, che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”, cosa ancora inattuata nel 2020 per la presenza di un gender pay gap medio in Italia dell’11%, ed anche peggiore in altri Paesi europei. Ma mentre con l’avvento del diritto antidiscriminatorio di matrice europea e l’affermarsi di politiche di conciliazione sempre più neutrali, volte cioè a favorire un equilibrio nei ruoli familiari tra uomini e donne, si è progressivamente affermata la necessità economica di una posizione paritaria nel lavoro delle donne rispetto agli uomini, non si può dire altrettanto sull’affermazione di una necessità culturale e politica. Ed infatti resta significativo il fenomeno della segregazione orizzontale delle donne, in ruoli, posizioni e settori lavorativi considerati più affini alla tradizionale riconduzione del genere femminile allo spazio privato, della cura, e la corrispondente esclusione da ambiti, quali quelli cosiddetti STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), che sembrano rappresentare i luoghi della razionalità per eccellenza.
Ritorna così, ancora, quella contrapposizione contro la quale lottavano le femministe della “first wave” tra la razionalità del maschio e l’emotività della femmina, l’intelligenza dell’uomo e la sensibilità della donna. Inoltre, pochi spazi sembrano residuare per il diritto antidiscriminatorio nell’intervento sulla piaga del lavoro precario: un lavoro prevalentemente femminile su cui l’emergenza sanitaria e sociale determinata dalla pandemia ha agito comportando in moltissimi casi la riduzione delle ore di lavoro o l’abbandono temporaneo del lavoro finalizzati a rendere la donna disponibile per le attività di cura, ragione per cui, come sottolinea l’ILO in un report di quest’anno (COVID-19: Protecting workers in the workplace, 2020), l’impatto economico della pandemia si riverserà in particolare proprio sulle donne.
D’Amico, nell’affrontare i diritti delle donne e i rischi che essi corrono nella società e negli ordinamenti contemporanei arriva fino alla questione più immediatamente connessa all’innovazione tecnologica e al suo impatto sui diritti costituzionali. Mi riferisco al tema dell’intelligenza artificiale, ormai ricorrente nelle riflessioni dei/delle costituzionalisti/e, e opportunamente affrontato nel libro con specifico riferimento alle conseguenze della mancanza di neutralità della tecnologia, e dell’AI in particolare, sull’eguaglianza di genere. Certo, come da più parti è stato sottolineato, sono i pregiudizi ben radicati nella società ad essere replicati nei c.d. dataset, non è dall’AI che i pregiudizi si generano spontaneamente, ma la progettazione dei sistemi ha un ruolo fondamentale nella loro cristallizzazione e amplificazione. Tutto questo accade principalmente per due ragioni, come ho già avuto modo di segnalare in altra sede: la prima risiede nelle caratteristiche soggettive di chi è chiamato a progettare i sistemi, poiché la maggior parte dei team di ingegneri e data scientists non comprende (o ne comprende pochissime) donne (e persone appartenenti a minoranze etniche, tanto che in questo ambito la natura intersezionale delle discriminazioni emerge con particolare forza), e non esiste pressoché alcuna formazione, nel campo delle scienze c.d. dure, sul significato della diversity.
D’altro canto la mancanza di neutralità è propria dei dati: l’astrattezza della scienza dei dati, che apparentemente trascende dai corpi, produce così quelle discriminazioni che lo stesso diritto, quando è stato costruito come indifferente ai corpi, alla materia, alle differenze presenti nell’umanità, ha generato, e per questa ragione il diritto, e il diritto costituzionale soprattutto, è chiamato ad investigarla e indirizzarla. Se l’eguaglianza parte dai corpi, la potenziale discriminatorietà dei dati si evince dal numero e dalle qualità dei molti corpi non contati, e silenziati. Non soltanto donne, ma soggettività variamente minoritarie, appartenenti a minoranze etniche, disabili, persone transgenere, non costruiscono i dati e anche per questo i dati tendono spesso conformarsi al potere, a diventarne specchio per un verso e cassa di risonanza per altro, interrogando direttamente il costituzionalismo come teoria e pratica della limitazione del potere.
E proprio questa natura contromaggioritaria del costituzionalismo rende la prospettiva di genere parte integrante del diritto costituzionale: “Una parità ambigua” ce lo mostra, senza lasciare più alcun dubbio.
Elettra Stradella, Associate Professor in Public Comparative Law, Department of Law, University of Pisa, ELaN Coordinator