A gendered approach to the “constitutional pandemic”

La pandemia costituzionale in un’ottica di genere

Nessuna e nessuno di noi può esimersi dal tentare di contribuire a costruire un’analisi e un contributo di senso della pandemia in corso, provando a cogliere le dinamiche dell’accelerazione dei processi storici che questo, come ogni stato emergenziale, porta con sé e, al contempo, ad approfittare delle occasioni di rinnovamento che qualunque crisi offre in modo inaspettato.

È stato dimostrato che la pandemia da Covid 19 abbia un impatto del tutto diverso tra i generi, dal punto di vista non solo epidemiologico, perché colpisce in Italia prevalentemente gli uomini, ma anche da quello esistenziale (politico, economico, sociale e culturale) tanto da richiedere l’adozione di politiche femministe riguardo l’accesso al cibo, acqua e igiene, salute, educazione, diseguaglianza economica e sociale, violenza contro le donne, violenza domestica, accesso alle informazioni, abuso di potere (cfr. la lettera del 24 marzo della Feminist Alliance for rights: http://feministallianceforrights.org/blog/2020/03/20/action-call-for-a-feminist-covid-19-policy/?fbclid=IwAR3vqKDjHuHgGhNgg9iwOvrgApKSojR9GIrm1KIHOaP17hj3csNvVogR03E.).

Si tratta dell’ennesima prova che, da un lato, la realtà si presenta e impatta in modo diverso secondo i generi e che, dall’altro, le politiche pubbliche e le istituzioni che le decidono sono incredibilmente e colpevolmente sorde, insensibili e/o incapaci di comprendere, valutare le dispari conseguenze sulle persone in base al sesso e in relazione all’intreccio tra genere, razzializzazione e classe.

I dispositivi approntati per affrontare questa pandemia, però, offrono profili di riflessione e prefigurazione per certi versi inediti.

Innanzitutto la centralità delle forme di distanziamento sociale quale lotta alla propagazione del virus ha spostato l’asse delle nostre esistenze nella sfera della riproduzione sociale, finora messa del tutto e in modo pervasivo a servizio delle forme della produzione.

Questa è un’occasione unica per tentare di invertire la rotta delle nostre convivenze, modificando in modo radicale il rapporto tra produzione e riproduzione a favore di quest’ultima. La riduzione dell’orario del lavoro nella produzione di beni e servizi si dovrebbe accompagnare al riconoscimento del lavoro di cura delle persone care e delle cose come contributo alla vita e al progresso sociale e morale del paese (come recita l’art. 4 della Costituzione) quale fonte di un diritto a un reddito, espressione della piena dignità sociale di questa attività o funzione. Soltanto un pieno riconoscimento politico, sociale, giuridico ed economico del lavoro domestico e di cura consentirà una sua più equa distribuzione tra i sessi con connessi benefici in termini di gender gap salariale (ai sensi dell’art. 37 Cost.), di superamento delle ghettizzazioni in base al genere di mestieri e professioni o livelli professionali nonché di contrasto alla cultura della violenza contro le donne che si nutre della subalternità del “femminile accudente”.

Ancor di più la centralità politica della riproduzione sociale è alla base della rinascita dello stato sociale, quale forma di pubblicizzazione della sfera della cura. Non dimentichiamo che tante donne costituenti furono impegnate proprio nella battaglia di far inserire in Costituzione tutti quei diritti sociali (salute, istruzione, assistenza, sulla base del principio di uguaglianza sostanziale che guarda alle condizioni “di fatto” secondo la formula costituzionale da loro valuta nell’art. 3) che avrebbero fatto uscire la famiglia – con il carico di lavoro tutto sulle spalle delle donne, per le quali ottennero la parità morale e  giuridica  – dalla dimensione privatistica per collocarla nello spazio politico costituzionale. Ogni donna vittima di violenza nella propria casa non è parte lesa soltanto dall’uomo a lei intimo che l’aggredisce, ma di un sistema che disconosce la dimensione politica e pubblica di questa relazione di sopraffazione e non se ne fa carico.

È la dimensione politico costituzionale, infatti, l’altra faccia della pandemia che deve essere affrontata di petto. Se l’ottica di genere, ancor di più nella sua declinazione intersezionale tra i dispositivi di subordinazione, disvela i rapporti di soggezione che di fatto impediscono il pieno sviluppo della personalità e l’effettiva partecipazione alla vita sociale, politica ed economica, si deve guardare con lucidità a ogni spostamento della divisione dei poteri per denunciare e prevenire forme insidiose di verticalizzazione ulteriore del potere. Tra queste va annoverato il ricorso a Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) per stabilire importanti e inedite restrizioni alle nostre libertà costituzionali.

Come è noto, si tratta di fonti non previste in Costituzione, introdotte negli anni 2000 nell’ordinamento (in modo che è stato molto criticato sin dall’inizio) per dare poteri “eccezionali” al sistema della “protezione civile” di derogare a norme di legge (appalti e tutela dell’ambiente, principalmente), che ora divengono il paradigma della sospensione dei diritti costituzionali a fronte di situazioni di emergenza: atti monocratici (decisi da una sola persona e non dal Consiglio dei ministri della sua collegialità), privi di controlli preventivi (niente parere del Consiglio di Stato e, soprattutto, emanazione del Presidente della Repubblica), fonti di livello amministrativo non sindacabili dalla Corte costituzionale.

La circostanza che siano espressamente previsti dai Decreti legge adottati per gestire l’emergenza epidemiologica non supera la loro inadeguatezza formale rispetto ai contenuti costituzionali che veicolano. La Costituzione viceversa offre lo strumento della decretazione di urgenza al Governo che, nei casi straordinari di necessità e urgenza, collegialmente può adottare “sotto la propria responsabilità, atti provvisori” che devono essere convertiti in legge entro sessanta giorni dal Parlamento. Appare paradossale che, dopo aver discusso per decenni dell’abuso del decreto legge, queste fonti proprio ora siano surclassate.

Solo i decreti legge possono trasmettere l’idea che la sospensione dei diritti costituzionali sia per definizione provvisoria e che sia il Parlamento (con il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale come garanti) a dover controllare che il Governo non travalichi i propri poteri. Con i DPCM viceversa si predilige una fonte che, anche al di là e a prescindere dalle intenzioni di chi ricopre pro tempore le cariche pubbliche, esprime l’idea dello svilimento a pratica amministrativa delle nostre esistenze.

Gli anticorpi servono contro il virus, ma anche per mantenere una dimensione propriamente politica e costituzionale delle forme della nostra convivenza.

Laura Ronchetti, Assistant Professor in Constitutional Law at the University of Molise